domenica 16 agosto 2009

Lo "spiaggismo", un'(allucinata) ipotesi interpretativa

di: Massimo Gambardella *

Un lascito del secolo appena trascorso - la scomparsa e la sconfitta di tanti -ismi che ne hanno segnato il corso - sembrava averci allontanato dai sistemi totalizzanti, capaci di strutturare in toto la visione della società, proponendo modelli assoluti, completi, pronti ad offrire una risposta per tutto e tutti, vere e proprie panacee per ogni male; sistemi fondati su una ipotetica e mal interpretata idea di solidarietà per il gruppo, di umile servizio per supremi destini.
Questa consapevolezza, largamente accertata dagli studiosi e avvertibile ancor più in momenti di così grande incertezza, non ha eliminato per altro la concreta possibilità di scoprire ancora, tanto in lande desolate come in plaghe così battute dal "commercio con la gente", strani e singolari modelli di pensiero, figli di una religiosità tutta laica, che nulla concede a ciò che non sia materia. Un esempio ne è lo spiaggismo, articolata Weltanschauung che ha trovato concretezza in una forma d'espressione assolutamente sconosciuta ai più consapevoli circuiti artistici, ma, non di meno, capace di covare sotto le ceneri, pardon, sotto le polveri della Costa d'Amalfi, pronta a far capolino e a far parlare di sé e a far discutere, ormai da anni, nei mesi in cui maggiormente la sferza del sole chiede il conto. Unico interprete, oltre che ideatore, ne è quel Nico D'Auria, raro artefice locale, che non manca mai all'appuntamento con il pubblico di fedeli e appassionati cultori della sua arte.
Lo spiaggismo rivela fin dalla sua stessa etimologia l'origine marinara, forse - si potrà sostenere fin d'ora - mercantile: ha precisi luoghi d'incontro, netti sentieri di espressione, chiari momenti di manifestazione.
È la terra inesplorata da una notevole schiera di artisti che pur ha frequentato o frequenta la Costa d'Amalfi; un modo singolare di rapportarsi a quel grande ispiratore qual è il mare, per dare forma e risposta - secondo le tecniche dell'intaglio o della macchia, della nuance o della ceramica - alle più concrete domande degli appassionati cultori.
Ed è da questo primo imprescindibile aspetto che bisogna partire per una corretta lettura dell'opera del Nostro. Essa infatti nasce dalla gente e, soprattutto, per la gente, nulla concedendo a stimoli puramente spirituali, a sollecitazioni profonde dell'anima. É un'arte fortemente volta all'essenzialità, alla più concreta praticità, senza arzigogolate astrazioni mentali fini a se stesse; è un'arte che parla il linguaggio dei suoi cultori, aperta agli stimoli, alle urgenze - si direbbe - che interessano i frequentatori dei luoghi.
Nico è l'artista delle genti, pronto a soddisfare i suoi fruitori: da questo punto di vista è un apostolo del feedback, del continuo riscontro con il suo pubblico; è, in sostanza, un degno figlio della società della comunicazione.
E in questa attenzione quasi morbosa per l'altro, trova modo di manifestarsi anche la cifra più profonda della sua opera: la sofferenza. In una recente intervista, il Maestro ha testimoniato che la sua "è un'arte malinconica, capace di racchiudere tutto il dramma di un uomo costretto a svolgere un vile lavoro, impossibilitato a dedicarsi ad altro". Con queste parole D'Auria conferma, qualora ce ne fosse stato bisogno, di essere perfettamente presente a se stesso, conscio di non potersi sottrarre ad un ruolo che gli è stato cucito addosso. "L'artista vorrebbe andare lontano, vorrebbe fuggire da questa condizione di vita drammatica...ma, come disse qualcuno: questa è una prigione senza cancelli...è difficile uscire da questo involucro". Questa toccante testimonianza sintetizza l'amaro destino di un uomo, un Ulisse cui è stata tolta la possibilità di soddisfare le più ardita e miracolosa qualità concessagli: la sete di conoscenza. Nico vorrebbe, ma non può, è ingabbiato in un ruolo, ma è in questo ruolo che dà prova della sua sensibilità. É il suo ulissismo represso, coartato, a determinare la sua arte: "Noi coltiviamo per tutta la vita la speranza della fuga (una fuga animata da sicura tensione conoscitiva, si dovrebbe aggiungere), ma, per adesso, ci accontentiamo di trasmettere agli altri ciò che apprendiamo". In queste parole si coglie il destino di chi, nonostante tutto, è un profeta in patria: il suo desiderio di evasione non soddisfatto è, paradossalmente, la fortuna della sua arte, è la fortuna dei suoi stessi frequentatori. Senza questa prigione, non ci sarebbe "profezia", né profeta, ma solo un incolmabile vuoto. Il suo messaggio, certo figlio anche degli stimoli, delle sollecitazioni altrui, dell'esempio di maestri che hanno optato per altri percorsi più convenzionali – è del resto l'artista stesso a riconoscere questo debito -, il suo messaggio, si diceva, non sarebbe più lo stesso altrove, su altri lidi, su altre sponde. Nico ha baciato le amate sponde e se un giorno non potrà più farlo, se deciderà di trovare lontano delle risposte, sarà la città intera a "piangerne" la partenza. Nico propone, lui come pochi altri, in tempi così bui e tormentati, una certezza, un modello: L'ASCOLTO. La sua proposta è degna figlia di quella xenia di greca memoria che ha intriso profondamente queste terre fin da quando i progenitori della nostra civiltà le conobbero.
Il suo spiaggismo è un sistema totalizzante, una proposta per il nuovo secolo.
Un manifesto di esistenza.

* docente in materie letterarie

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